Il “sistema immunitario USA” contro l’autoritarismo
Il 20 di gennaio del 1937 Franklin Delano Roosevelt giura come Presidente degli Stati Uniti: è al suo secondo mandato, reduce dalle politiche del New Deal e pronto a confrontarsi con una situazione in Europa che va, lentamente, degenerando. Si tratta dell’unico presidente nella storia degli Stati Uniti ad aver giurato per più di due mandati (tre, per la precisione) e che resterà saldamente al potere fino alla sua morte, agli inizi del 1945. Ricopre il ruolo di una carica politica fondamentale, ma come si rapporta il Presidente al sistema politico USA?
L’elezione diretta del Capo di Stato (che, nel caso USA è anche il capo del governo) in maniera indipendente dal Congresso è considerata più rispettosa della volontà popolare rispetto a quanto accade in Europa, dove l’esecutivo nasce dall’accordo tra gli eletti. Tuttavia, al netto dell’esempio USA dove per ora la democrazia ha funzionato benissimo, è altresì vero che l’architettura istituzionale di un sistema simile può presentare varie criticità. Se è vero, infatti, che lo stato è essenzialmente uno strumento di aggregazione collettiva, bisogna dare per assodato che un’architettura istituzionale uguale, calata in società differenti, può non dare per forza il medesimo risultato.
Interprete interessante di questo filone di pensiero è il drammaturgo statunitense Sinclair Louis che già nel 1935 teorizzava, nel suo romanzo “Qui non può succedere” un futuro distopico in cui un senatore populista otteneva la carica di Presidente degli Stati Uniti. Approfittando di una società divisa e spaventata, diffondeva la dottrina del suo partito unico (il “Grande Partito Patriottico Americano”) e schiacciava i suoi oppositori. Ciò che ha impedito il concretizzarsi di un sistema simile è stata, essenzialmente, una società non “adatta” a conferire a una forma di governo verticistica come quella presidenziale, capacità accentratrici e plebiscitarie tali da consentirle di assumere caratteristiche autoritarie.
Un utile barriera contro l’autoritarismo è stata fornita non tanto dal Congresso come istituzione, quanto dai partiti che lo popolano. A fronte, infatti, di un meccanismo elettivo basato su circoscrizioni uninominali, in un governo federale ampiamente decentralizzato, non è raro vedere che, a darsi battaglia nell’agone parlamentare, sono partiti ampiamente “indisciplinati”. Differentemente dal Parlamento britannico (dove chi vota in modo difforme dal partito è addirittura multato) il sistema elettorale statunitense porta i candidati ad avere differenti prerogative. Il fatto che la struttura confederativa permetta alle entità territoriali di fruire di vari privilegi (come fondi stanziati dal governo centrale) genera un perenne stato di “competizione”. L’obiettivo del rappresentante/senatore è quello di garantire vantaggi ai propri votanti perché, in un sistema uninominale (che elegge, cioè, un solo rappresentante per ogni circoscrizione elettorale), non farlo rischia di renderlo vulnerabile ad altri candidati che potrebbero sfruttare il malcontento per scalzarlo. Il successo di una democrazia presidenziale è possibile, dunque, grazia a un’architettura dello stato (e della società) tendente alla competizione politica e al “centrismo” degli elettori. La prima è viatico alla compattazione eccessiva dei partiti che potrebbero di fatto invalidare il ruolo del Parlamento in caso di derive personalistiche. La seconda, invece, occorre a evitare la costruzione di un “culto della personalità” del presidente che potrebbe arrivare, col tempo, a innescare derive plebiscitarie.