23 maggio 1992, strage di Capaci, inizia la “strategia della tensione”, dinamitarda, seconda puntata, per mano della criminalità organizzata di stampo mafioso. Il 19 luglio, sempre di quell’anno, Via D’Amelio e poi, il 1993 in Via Fauro a Roma, i Georgofili a Firenze e Via Palestro a Milano. La prima stagione delle bombe e delle stragi aveva visto, quali protagonisti, il terrorismo di destra e le diverse infiltrazioni dei servizi segreti nostrani e statunitensi e mai avremmo pensato di rivedere le scene dei treni dilaniati sotto le gallerie, di Brescia e di Piazza Fontana.
Proprio Piazza Fontana a Milano, la madre di tutte le stragi perpetrate dalla destra eversiva, erede diretta del ventennio, che auspicava e più volte tentato, un golpe, alla maniera Sudamericana. Di qui i fatti di Milano di cui tanto si è parlato e molto a sproposito. Con i tanti “attori”, nel bene e nel male, di quella vicenda, che in Trent’anni di processi, ancora oggi, non hanno messo la parola fine in termini di responsabilità dirette o meno. Tra i protagonisti, suo malgrado, ci fu un ferroviere anarchico, Giuseppe Pinelli, che entrò, innocente e ne uscì dalla finestra della questura di Milano, altrettanto innocente. A cinquantaquattro anni dal suo assassinio a opera di funzionari dello Stato, abbiamo incontrato, in occasione della celebrazione della giornata per le vittime innocenti dello Stato, una delle sue due figlie, Claudia, che ci ha raccontato una storia.

devastata dall’ordigno esplosivo
Qual è stata e qual è la sua esperienza in questi cinquanta anni da figlia di Giuseppe Pinelli
La mia esperienza è un esperienza che dura da 54 anni e abbiamo deciso di continuare a portarne avanti la testimonianza perché quello che è capitato a noi può succedere a chiunque, come abbiamo visto accadere nel corso degli anni: persone che muoiono nel momento in cui sono nelle mani delle istituzioni e quindi in una questura, come è successo a mio padre, durante un fermo di polizia o in un’ospedale psichiatrico. In un luogo dove le istituzioni dovrebbero essere garanti della incolumità del cittadino.
Che cosa ha significato in questi 54 anni vivere senza un papà che, suo malgrado, è diventato famoso.
Certo, suo malgrado diventato famoso. Vuol dire vivere con una responsabilità e nello stesso tempo proseguire con una propria vita. Io non sono Giuseppe Pinelli, io sono Claudia e ho fatto i miei errori senza dover rispondere a nessuno… qualcuno mi dice: “Ma tuo padre non avrebbe fatto questo”, io gli rispondo che magari sarebbe utile organizzare una seduta spiritica per chiederglielo. Però la responsabilità c’è perché quello che forse sfugge ai più e che non è stato un percorso facile. Cambiare la narrazione è stata un lotta, una battaglia, ed è terribile utilizzare questi termini bellicistici, ma è quello che abbiamo dovuto affrontare come famiglia Pinelli. E siamo andati avanti con la forza di nostra madre Licia, io avevo otto anni, mia sorella ne aveva nove quando è morto nostro padre e mia madre è dovuta diventare una roccia, per avere giustizia, per avere verità, quello che dovrebbe essere un atto dovuto e che non è un atto dovuto a tutti. Quindi un impegno, un impegno portato avanti perché non eravamo noi a vergognarci e non era Pino.

Claudia, cerchiamo di vedere da un’altra prospettiva la vicenda. Il commissario Calabresi… che rapporti in realtà c’erano, sempre che ci sono stati, tra Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi e che rapporti ci sono stati dopo.
Dunque, prima di tutto c’è da dire che il vice-commissario Calabresi era il capo dell’ufficio politico della questura e cioè l’attuale Digos, quindi conosceva mio padre, perché era quello che all’interno dell’ufficio politico che si occupava degli anarchici e delle frange dell’estrema sinistra. C’era un rapporto, dunque, tra un vice-commissario di polizia e un’anarchico. Mio padre disse: “C’è un giovane funzionario di polizia che non è come gli altri, questo ha studiato, è uno con cui si può parlare”. Ciò non toglie che nel corso del tempo mio padre soprattutto per la sua attività politica e di impegno per i giovani che erano stati arrestati per gli attentati precedenti a Piazza Fontana, viene attenzionato più di altri e minacciato. Calabresi era un funzionario di polizia e mio padre era un anarchico e non era un ingenuo e può darsi che Calabresi volesse fare di Giuseppe Pinelli un informatore ma mio padre non era un ingenuo. Hanno parlato di amicizia, non c’è mai stata amicizia. C’è stato uno scambio di libri. Calabresi aveva regalato a mio padre un libro, “Mille milioni di uomini” di Enrico Emanuelli, mio padre qualche tempo dopo lo ha ricambiato e dopo averne parlato con mia madre e con i compagni del suo circolo anarchico ha dato al commissario il suo libro del cuore che era, “L’antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. Questo era il rapporto. Detto questo aggiungo che il commissario Calabresi ha delle responsabilità nella morte di mio padre perché era un funzionario di polizia ed era responsabile dell’interrogatorio quella notte e quindi, di certo Calabresi è una vittima perché è stato assassinato, ma è la vita che hai fatto che conta. C’è chi aveva dei poteri e chi non aveva nessun potere come Giuseppe Pinelli

Ritiene che dietro tutto questo ci siano i servizi segreti deviati sotto il comando della Cia e degli Stati Uniti?
Devi scusarmi se faccio questa precisazione. Non esistono servizi segreti deviati. Chiaramente l’Italia è un paese che esce sconfitta dalla seconda guerra mondiale e dunque nel nostro paese operano potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e l’Italia si trova nel blocco Occidentale. Quello che succede in questa fragile democrazia non è una scelta autonoma, è tutto etero diretto e adesso ci sono documenti che possono confermare quello che allora solo si pensava. Basti pensare a quante basi Nato abbiamo sul nostro territorio e dunque possiamo ipotizzare che potessero essere prese decisioni politiche senza concordarle con chi aveva vinto la guerra? E poi, se solo pensiamo a tutti i tentativi di colpo di Stato che ci sono stati e che sono stati bloccati, ma da chi? Lo sappiamo vero? E comunque, tornando al discorso dei servizi segreti, se parliamo di loro parliamo dello Stato.

Un’ultima domanda. Le iniziative di commemorazione e di celebrazione di evento tragici riferiti al periodo della strategia della tensione o degli anni di piombo fanno sicuramente bene se riferiti al concetto della memoria, del ricordo, perché si cerca di comprendere la propria storia ma, secondo lei, sono sufficienti?
Nel corso di questi anni noi siamo stati una piccola goccia d’acqua persistente e come dicevo prima non è facile cambiare la narrazione ma una democrazia è compiuta nel momento in cui prende coscienza della verità e non è della verità che si deve aver paura. Queste iniziative bastano? Probabilmente no, però si prova.

E le istituzioni come si pongono in tal senso?
Dalle istituzioni sono stati fatti passi che non hanno perseguito un cammino di verità e quindi si è parlato anche di memoria condivisa, di pacificazione ma non può esistere una memoria condivisa nel nostro Paese e lo vediamo anche adesso, con l’attuale governo e quindi se parliamo di un processo come quello, per esempio, che si è svolto in Sud Africa, allora si, li si è raccontata la verità.