Il 1977 fu un anno terribile, per l’Italia. Costellato da una serie innumerevole di attentati terroristici, in prevalenza a opera delle Brigate Rosse e di altre sigle legate all’estremismo di sinistra. Lutti che coinvolsero anche giovani ragazzi morti durante scontri di piazza con le forze dell’ordine. Un clima cupo aveva avvolto il Paese. La situazione politica era complicata e certo non aiutava lo Stato in una risposta adeguata all’offensiva terrorista, anche se le indagini condotte dal nucleo guidato dal generale Dalla Chiesa avevano prodotto alcuni risultati importanti.
Le elezioni
Le elezioni dell’anno precedente avevano sostanzialmente bipartitizzato il sistema, avendo la DC e il PCI, insieme, ottenuto quasi i tre quarti del consenso popolare. La risposta dei partiti intermedi, che avevano tradizionalmente governato sino ad allora con la DC, a questa loro secca sconfitta fu il disimpegno da ogni incombenza governativa. La DC fu così costretta a costituire un esecutivo “monocolore” guidato da Giulio Andreotti. Gli altri partiti si astennero nel voto di fiducia, e così il nuovo esecutivo fu denominato “delle astensioni”. Si trattò di una convergenza “autonoma” e “non contrattata”, a rimarcare la separatezza politica fra la DC e gli altri partiti.
Non era però questa l’unica novità. Anzi, a ben vedere, accadde che per la prima volta anche il PCI non votò contro il governo DC, astenendosi anch’esso.
A questo complicato risultato la Democrazia Cristiana era giunta attraverso l’abile guida, soprattutto paziente, di Aldo Moro. Che dalla inedita posizione di Presidente del partito, e con la leale collaborazione del Segretario Nazionale Benigno Zaccagnini, aveva ideato questa particolare formula. In Moro, infatti, prevalse sempre il senso dell’interesse generale, mai il particolarismo di parte.
La “prima volta”
Erano state molteplici le voci interne alla DC che avevano ipotizzato un ritorno alle urne per drammatizzare ulteriormente la situazione e puntare così a ottenere un successo ancora più largo. Ma Moro a esse aveva opposto la tradizione di “responsabilità” della Democrazia Cristiana, premiata per 30 anni dagli italiani per dotarli di un governo autorevole in grado di affrontare i loro problemi e non crearne di nuovi.
Certo, la “prima volta” del PCI nell’area di sostegno al governo – ancorché, non contrattato e autonomo, come già detto – era una novità non secondaria, ma l’esito elettorale e la situazione generale imponevano di cogliere l’atteggiamento positivamente responsabile del Partito Comunista. Che, certo, rimaneva “alternativo” alla DC e perciò un’alleanza politica restava preclusa, limitandosi dunque la collaborazione a un “accordo programmatico”, circostanziato e fortemente orientato al superamento dei gravi problemi (innanzitutto economici e di ordine pubblico) che l’Italia doveva risolvere.
Il discorso di Mantova
Queste considerazioni furono esposte in un discorso a Mantova di rara efficacia, tenuto completamente a braccio, a dimostrazione di una lucidità di pensiero e di una padronanza della lingua straordinarie. Moro doveva fornire all’interno del suo partito e più ancora a quel variegato mondo esterno che ne osservava con preoccupato interesse le mosse, alcune precise garanzie circa i limiti impliciti ed espliciti della inedita operazione politica avviata. Non era un caso che a Palazzo Chigi Moro avesse optato per non andare egli stesso, ma di inviare Andreotti, più “affidabile” agli occhi del Vaticano e soprattutto degli USA.
Il discorso di Benevento
Sette mesi più tardi il discorso che Moro tenne a Benevento ebbe un “coefficiente di difficoltà”, per così dire, ancora più elevato. Innanzitutto per la situazione di estrema violenza che si era creata nel Paese e che aveva raggiunto il suo apice giusto due giorni prima con l’attentato mortale al vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. E in secondo luogo perché Enrico Berlinguer aveva esplicitamente chiesto alla DC, a Moro nella fattispecie, di andare “oltre” la formula delle astensioni.
Moro aveva allora cominciato a tessere, come sempre con infinita pazienza e straordinaria lucidità, la tela della “solidarietà nazionale”, che giungerà a compimento qualche mese più tardi col famoso e tragico suo ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari.
Ma già a Benevento l’intelaiatura era pronta ed esplicitata. E la sua eccezionale capacità di ideare formule in grado di condensare una situazione e trovare la chiave per dipanarla, utilizzò la categoria dell’indifferenza: le forze politiche erano fra loro “indifferenti”. Il che non significa – precisò – disconoscersi o peggio detestarsi; significa, più semplicemente, l’incapacità o l’impossibilità di mettere a punto alleanze, di accordarsi in termini politici impegnativi. Esse sostengono il Governo ma al tempo stesso sono “indifferenti” fra loro. E quindi si limitano a stipulare un accordo sulle cose da fare. Ma non vi è in esso nulla – disse al Teatro Massimo della città campana – che possa in alcun modo contraddire la natura della DC, la sua ispirazione cristiana e la sua caratteristica di partito popolare.
“14 milioni di popolo”
Moro dedica tempo ad argomentare, a spiegare, a motivare. E lo fa innanzitutto con il proprio partito, la cui unità è indispensabile ai fini del supremo interesse del Paese. Una unità che esalta la virtù del popolo democristiano cui si sente legato umanamente, spiritualmente e non solo politicamente. Un legame che rivendica, a conclusione di un discorso applauditissimo, ricordando con orgoglio che la DC ha ottenuto il voto di 14 milioni di italiani, “14 milioni di popolo”.
Un legame che le BR immaginarono di troncare. Uccisero, ma persero.