Quando la pubblicità diventa ingannevole perché induce acquisti da parte dei consumatori sfruttando richiami ecologici non veritieri.
Greenwashing è il termine che viene comunemente utilizzato per definire l’ambientalismo di facciata messo in campo per trarre profitto ed aumentare le vendite.
Può tradursi in omessa informazione circa elementi utili a rilevare l’impatto ambientale dei prodotti, assenza di prove, affermazioni approssimative GREEN, affermazioni ambientaliste false, anche attraverso immagini, loghi ecc.
Questi comportamenti sono già sanzionati dal Codice del Consumatore sulla pubblicità ingannevole, il D.lgs. 205/2006, nonchè dalla Direttiva UE 2005/29.
A marzo di quest’anno è stata approvata la nuova Direttiva 825/2024 che ha integrato e modificato la Direttiva del 2005 e che ha rafforzato ed ampliato il relativo ambito di applicazione.
Teniamo presente che gli Stati membri dell’UE hanno dieci anni di tempo per il recepimento della nuova Direttiva ma anche che, come detto, gran parte di questi comportamenti sono già sanzionati dal Codice del Consumo e delle vigenti norme sopra richiamate.
La nuova Direttiva impone una serie di obblighi per chi intende vantare dei claim ambientali e prevede esplicitamente il divieto di utilizzare i claim generici, tipo “ecofriendly”, “green”, “amico degli oceani” e così via.
Introduce il tema delle caratteristiche ambientali dei prodotti, sociali, gli spetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità e la riciclabilità, proprio per rafforzare la tutela dei consumatori sempre più sensibili negli ultimi anni a questi temi.
Prevede che le asserzioni ambientali dei prodotti e delle aziende debbano essere: veritiere, non contenere informazioni (anche parziali) false; essere rese in modo chiaro, specifico, accurato ed inequivocabile, in modo da non trarre in inganno i consumatori; supportate da prove a sostegno delle stesse affermazioni così come avere elementi scientifici e tecnici a sostegno dei marchi e dei loghi di riferimento ambientale.
È vietato esibire un marchio di sostenibilità ambientale che non sia basato su di un sistema di certificazione o non sia stabilito da Autorità pubbliche e sono vietate le dichiarazioni anche solo vaghe e generiche non supportate da prove certe.
Ad esempio se viene indicato “prodotto biodegradabile al 100%” ma poi lo stesso prodotto contiene anche solo una minima parte non degradabile; oppure ancora se viene proposto come “prodotto ecosostenibile” perchè l’azienda ha partecipato a protocolli ambientali ma non c’è una prova specifica per quel prodotto, ecco che si tratta di comportamenti rientranti più in generale nella pubblicità ingannevole e, più nello specifico, nel caso del greenwashing punito dalla nuova Direttiva UE.
In sintesi la pubblicità in questo caso diventa ingannevole e viola le norme sopra richiamate se prevede un marchio green creato senza la base di uno standard riconosciuto e certificato da ente terzo, se indica dichiarazioni sulle prestazioni ambientali future ma non basate su di un piano dettagliato e verificabile, che includa impegni chiari ed oggettivi (inclusa l’assegnazione delle risorse necessarie), scadenze precise e risultati misurabili, le cui conclusioni dovranno essere verificate da un soggetto terzo, se contiene solo termini generici rispetto al GREEN.
In caso di violazioni sono 2 le Autorità che possono intervenire per sanzionare i comportamenti ingannevoli: AGCOM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria: le multe per questi comportanti sono pesanti, da Euro 5.000 fino ad Euro 10.000.000.
Quindi per tutte le AZIENDE: attenzione e rigore quando di propone pubblicità con riferimenti al GREEN e per tutti noi CONSUMATORI: attenzione alla pubblicità GREEN, cerchiamo di “andare oltre” le etichetti e di informarci, nel limite delle possibilità, in ordine alla veridicità o meno di quelle affermazioni.