La guerra è una cosa complessa e in sostanza, chi dice che non cambia mai si sbaglia.
La guerra cambia, si evolve sempre, più che altro si può dire che tende a far rima con sé stessa, questo sì.
Se la sfida del passato è stata quella di piegare le resistenze, mandando in pezzi l’orgoglio di popoli interi, la sfida del presente è capire come prevenire quegli stessi fenomeni. L’uso non di armi più complesse, bensì della società stessa che diviene arma contro il nemico, rappresenta un fattore fondamentale, come Iraq e Afghanistan ci hanno insegnato bene, resta da capire cosa faremo con la lezione che abbiamo imparato.
Se il processo di inversione tra fattore di occupazione e fattore stabilizzante è iniziato in Corea, i dossier afgani e iracheni dimostrano che l’evoluzione delle attività belliche resta, ad oggi, incompiuta.
Certamente, sono stati fatti dei passi avanti in Vietnam, dove si fece largo l’idea, nei vertici militari, della forte componente ideologica di quella guerra, e di come essa impattò sul risultato finale. Nondimeno, se anche l’Iraq si sforzò di “conquistare i cuori e le menti”, è pur sempre vero che il fatto che lo scarso coordinamento con le forze armate, la guerra troppo lunga e un gradimento ancora relativamente alto nei confronti di Saddam la trasformò, presto, in una “contro insurrezione”.
Sull’onda del ritiro da Kabul, il messaggio sulle scrivanie del Pentagono è stato proprio questo: l’obiettivo, o meglio la sfida, delle “guerre del futuro”, è quello di riuscire in una penetrazione economica (e ideologica) delle sfere di influenza esterne per destabilizzarle.
A questa prima fase, che richiede un importante intervento dei Servizi Segreti, è correlata poi una fase secondaria di ristabilizzazione, che avviene, sì, con mezzi militari. La sfida è, dunque, quella di una “guerra a intervento militare minimo” che si possa, cioè, vincere prima ancora di essere combattuta, soprattutto in scenari come quelli delle “guerre di quarta generazione” che hanno nemici facili da attaccare ma difficili da vedere.
A riprova di ciò, il ventennio afgano: ad essere coinvolti nelle guerre sono sempre meno i militari, e sempre di più le società, e ha pertanto senso che, se l’emergere di tensioni costituisca un’arma utilizzabile da una parte contro l’altra, il disinnescarle preventivamente possa escludere un elemento importante che gioca a favore dell’eventuale avversario. In quest’ottica, cioè del comprendere come assicurarsi un ampio supporto popolare, sta la sfida del futuro, che è una grande sfida di tipo militare, ma anche e soprattutto che coinvolge in maniera integrata l’intelligence.
Saper vincere questa sfida rappresenterà un grande vantaggio perché i cuori e le menti sono armi messe al servizio di chi sarà in grado di utilizzarle meglio perché il supporto popolare garantirà interventi militari più brevi e meno dispendiosi in termini di mezzi e, soprattutto, di vite umane.
Concludendo, l’era afgana apre, nella comunità militare occidentale, una grande sfida: resta da vedere come essa verrà affrontata, e che risultati ne deriveranno.