Difesa comune europea se ne parla da sempre.
Da sempre la questione inerente la Difesa europea, ovvero un sistema autonomo di sicurezza continentale pur appartenente all’Alleanza Atlantica ma non dipendente in tutto e per tutto da essa, come di fatto avviene oggi, è un tema per iniziati, ovvero militari ed esperti di politica internazionale (tra i quali, come è noto, i politici in ogni nazione sono davvero pochi).
I Governi europei, Donald Trump e la NATO
Le opinioni pubbliche non lo hanno mai considerato un argomento prioritario, assuefatte ormai, fortunatamente, alla condizione pacifica nella quale – per la prima volta nella Storia – si vive in Europa da 80 anni a questa parte.
Ora però la preoccupante situazione che si è venuta a determinare in seguito all’aggressione russa in Ucraina e alla guerra di Gaza sta inevitabilmente ponendo il tema in cima all’ordine del giorno dei governi europei, e la stessa Commissione ha mosso qualche (timido) passo per affrontarla. Anche perché il timore di un ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump imporrebbe una qualche scelta, pur senza voler prendere alla lettera le sue affermazioni roboanti: le quali ad ogni modo riflettono un pensiero, e cioè che gli USA non vogliono più sopportare quasi in toto il costo della NATO.
Questo è il punto: la richiesta ai paesi aderenti di contribuire al bilancio dell’Alleanza con il 2% del PIL nazionale, già posta dal Presidente Obama ma sino ad ora ottemperata da ben pochi stati europei. Non v’è dubbio che anche Joe Biden, se sarà rieletto, riproporrà il tema: a maggior ragione se la guerra in Ucraina (con le minacce che essa ingloba) dovesse proseguire pure il prossimo anno.
Se ne parla ma non si farà
Dunque, è anche di questo che bisognerebbe discutere in questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Naturalmente non lo si farà, se non tangenzialmente, ma poi la prossima Commissione e il prossimo Parlamento e ancor più il Consiglio dei capi di governo saranno posti di fronte al problema. In maniera più soft, con Biden. Più hard con Trump. Ma non si tratta solo della compartecipazione ai costi della NATO. C’è anche, come si diceva, la questione del sistema di difesa unico, oggi inesistente poiché ogni singolo Stato ha le proprie Forze Armate e una propria autonoma catena di comando. Con tutte le inefficienze e duplicazioni di costi conseguenti.
I dati concreti della spesa
I dati da questo punto di vista sono incontrovertibili. Per chi volesse esaminarli nel dettaglio la fonte è il SIPRI (l’istituto internazionale per le ricerche sulla pace, con sede a Stoccolma). Qui ci limitiamo a indicare solo alcuni macro-dati, peraltro di per sé molto indicativi di una realtà che potrebbe essere radicalmente diversa e ben più efficiente ed efficace se venisse sinergizzata invece che frammentata come è attualmente.
Dunque: la spesa complessiva per la Difesa (apparato militare e amministrativo, nonché sistemi d’arma) ruota intorno ai 230 miliardi di dollari, una cifra invero considerevole se la si rapporta, ad esempio, con quella cinese (di poco superiore, circa 250 miliardi) e anche con quella americana la quale è sì assai superiore (quasi 800 miliardi) ma produce il 90% in più di capacità militare. E questo accade perché quella cifra è la somma di 27 bilanci nazionali, con tutte le duplicazioni del caso. Non solo per quanto attiene alla, diciamo così, “forza lavoro” (militari in servizio e personale amministrativo) ma anche per quanto attiene alle dotazioni in armamenti.
Armamenti differenti
Per fare solo un paio di esempi, giusto per capire di cosa stiamo parlando: gli USA hanno un solo modello di carro armato, gli europei ben 30. Loro hanno 4 tipologie di cacciatorpedinieri, noi 29.
Si potrebbe continuare. E’ quella che giustamente l’ex ministro del governo Draghi e attuale amministratore delegato di Leonardo (la principale industria d’armamenti italiana e fra le prime sei europee) ha definito in una intervista al Financial Times “segmentazione industriale”: ogni Stato nazionale investe sui propri sistemi d’arma e questo naturalmente produce duplicazioni mentre quello che servirebbe sarebbero sinergie ottimizzanti la spesa, che potrebbe essere sensibilmente ridotta e al tempo stesso generare una “capacità aggregata” significativa che al contrario oggi non c’è.
Cessione di sovranità
Ciò accade perché nessuno Stato membro è disposto a cedere alcunché della propria sovranità militare.
E, per chi ce l’ha, nessuno è disponibile a mettere a fattor comune la propria industria bellica, che anzi è in perenne competizione nel florido mercato mondiale delle armi con quelle degli altri Paesi.
Stando così le cose è evidente che interessi consolidati, sia industriali che militari (si pensi alle catene di comando militari: sono 27 e dovrebbero ridursi a una sola!), e velleità nazionalistiche impediranno sempre una qualsiasi opera di razionalizzazione e anche solo di messa in comune della ricerca e dello sviluppo tecnologico.
Francia e Germania
Inoltre è da considerare l’eterna discordanza fra Germania e Francia, quello che al tempo stesso è l’asse sul quale si regge la costruzione europea.
La prima, per i noti motivi, dal 1945 in avanti ha preferito affidarsi in toto agli Stati Uniti e alla NATO e solo ora – dopo lo scoppio della guerra in Ucraina – ha deciso (ma in realtà, a due anni data, non ha avviato) un programma di investimenti militari per ben 100 miliardi di euro.
La seconda, potenza nucleare e seggio permanente all’ONU, non rinuncia alle proprie specificità e in fondo neppure alla propria auto-visione di “grandeur” incompatibile con quella volontà europeista tanto evocata dal Presidente Macron ma poi spesso smentita nei fatti. Quando Macron, giustamente, sostiene che la UE deve divenire autonoma nella capacità difensiva dovrebbe ad esempio mostrare pure la disponibilità, che invece non c’è, a convertire in europeo il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Interessi nazionali prevalenti
Insomma, nonostante l’argomento sia divenuto oggetto di discussione e talvolta di pensosi convegni all’atto pratico i governi non riescono a mettere sullo sfondo gli interessi nazionali e delle proprie industrie di armamenti in favore di una strategia comune che pure la situazione internazionale richiederebbe. E così il punto più avanzato a oggi raggiunto è la proposta del Commissario al mercato interno, il francese Thierry Breton: la European Defence Industrial Strategy, il cui obiettivo sarebbe il miglioramento dell’efficienza del sistema attraverso la centralizzazione degli acquisti (e delle vendite ai paesi terzi). Un po’ poco, vien da dire.
La proposta Draghi e una politica esterna comune
Altra cosa sarebbe, come suggerito da Mario Draghi, emettere debito comune in base all’assunto che la difesa è bene pubblico comune. Ma ovviamente sono molti i paesi, a cominciare dalla Germania, che non condividono l’idea. Risultato: non si fa nulla, pur essendo tutti consapevoli che l’insieme delle risorse investite sulla Difesa dai paesi dell’Unione potrebbe – se unificata – garantire un livello di sicurezza continentale importante e anche, anzi soprattutto, un peso geopolitico rilevante, cosa che oggi non è.Del resto, a ben riflettere, una Difesa comune ha senso se c’è una Politica Estera comune, e questa può esserci solo se esiste una comune volontà politica, dunque una Unione politica. Allora, alla fine, il punto è sempre quello, una Unione politica che ancora non c’è.