Ormai quasi alla vigilia dell’insediamento operativo della nuova Commissione UE ancora guidata da Ursula von der Leyen e a oltre un mese dalla presentazione del Rapporto sul futuro della competitività europea predisposto da Mario Draghi su incarico affidatogli un anno fa dalla medesima Presidente la domanda che in molti si pongono, legittima nel suo cinismo, è: “che fine farà?”. E la sottintesa risposta è: “nel cassetto della von der Leyen”.
Per almeno due motivi
Il primo è evidenziato un po’ da tutti: il Rapporto, invero di notevole qualità (e non poteva essere diversamente visto l’estensore) pone la UE di fronte ai suoi grandi problemi, che però essa non sa affrontare in quanto troppo dipendente dalla volontà dei singoli Stati che – salvo poche eccezioni – è tutt’altro che unitaria e quindi incapace di affrontarli in quanto Comunità.
Il secondo è il dubbio circa le reali intenzioni di von der Leyen, che si sta dimostrando un’abile politica tattica più che una leader con una visione strategica: cioè, detto in chiaro, il sospetto è che abbia commissionato il rapporto a Draghi (e pure quello sul mercato unico a Letta) come manovra di immagine, un anno fa, utile per la sua campagna elettorale a quel tempo avviata per la propria riconferma (e come si è visto condotta a termine con successo). Ora, ringraziati i due estensori, il loro lavoro non serve più.
Detto dunque quale è il concreto rischio per il Rapporto, e detto altresì che il coro delle approvazioni è risultato tanto scontato quanto piuttosto flebile nei toni (segno di una sua condivisione solo parziale da parte di chi lo ha apprezzato almeno negli intenti, figuriamoci invece l’opinione di chi – qualcuno lo ha detto, qualcun altro ha preferito tacere – non lo ha affatto condiviso) non è inutile ricordarne in essenza i punti principali: perché si tratta di una analisi propositiva che mette a nudo il deficit di efficienza dell’Unione ponendola di fronte al bivio che sta per incontrare lungo il suo cammino: innovare, e molto, oppure “rassegnarsi a una lenta agonia”.
Nei commenti al Rapporto si è posta l’attenzione innanzitutto sull’entità invero corposa delle risorse economiche che dovrebbero essere impegnate per realizzare gli obiettivi indicati: 800 miliardi di euro annui per investimenti, aggiuntivi al bilancio europeo, pari a poco meno del 5% del PIL dell’Unione. Un ammontare enorme che Draghi motiva lungo le quasi 400 pagine del Rapporto il cui fine è alquanto esplicitato: evitare il declino della UE nel mondo.
La UE necessita – scrive Draghi – di risolutivi mutamenti nella sua governance e nelle sue politiche nei principali settori ove la competitività con Stati Uniti e Cina, soprattutto, è ogni giorno minore: politica estera e di difesa, economia, industria, tecnologia, commercio. E il radicale cambiamento andrà perseguito garantendo i valori fondativi dell’Unione, quelli che ne fanno l’area del pianeta nella quale essi sono stati assicurati con maggior forza negli ultimi decenni: democrazia, libertà, coesione sociale. Una sottolineatura non da poco e quanto mai necessaria, di questi tempi.
Il quadro attuale è impietoso: l’UE ha accumulato in questo scorcio di nuovo secolo ritardi significativi e non più tollerabili in settori decisivi per il futuro prossimo quali quelli ad alta tecnologia digitale; sta patendo un declino demografico che non aiuta certo la crescita economica, appesantita anche da una dinamica salariale recessiva da ormai lungo tempo; è oberata da una ipertrofia normativa che disincentiva gli investimenti imprenditoriali; è afflitta da un processo decisionale non al passo con i tempi, lento, vincolato dal diritto di veto che ogni Stato membro può minacciare ed esercitare.
Esistono però ancora le possibilità di rilancio, purché non si perda ulteriore tempo, anche in ragione delle non poche eccellenze presenti nel continente, pure in settori ad alta tecnologia, quali l’aerospaziale, la robotica, i nuovi servizi di Intelligenza Artificiale.
Il rilancio potrà essere realizzato da un lato con la volontà politica dei governi (purtroppo tutta da dimostrare) e dall’altro con un investimento massiccio, come detto, che potrà essere finanziato attraverso l’emissione di nuovi titoli pubblici comuni finalizzati (potremmo definirli “Eurobond di scopo”) su progetti nelle reti, nelle infrastrutture, nell’innovazione, nella decarbonizzazione, nella sicurezza (la difesa ma anche la riduzione delle dipendenze per le materie prime strategiche da Paesi terzi, per di più non sempre in linea con i valori politici e umani promossi nella UE).
Per affrontare questi compiti strategici occorrerà superare alcune “barriere”: la difficoltà nell’avere e adottare politiche comuni in troppi settori (si pensi ad esempio a quelli fiscali); lo spreco eccessivo di risorse comuni distribuite irragionevolmente fra strumenti comunitari e strumenti nazionali; l’assenza di un coordinamento efficace tra le diverse politiche nazionali in tema ambientale e industriale. Sono pertanto dieci i settori strategici individuati nel Rapporto: energia, materiali critici, digitalizzazione, tecnologie pulite, difesa, industrie energivore, automotive, spazio, farmaceutica, trasporti.
Il Rapporto Draghi propone dunque diverse piste di lavoro ritenute indispensabili per affrontare le sfide di questo secolo e uscirne vincenti come popoli europei, sia sul piano della competizione economica sia su quello, non meno importante, del mantenimento del sistema democratico e liberale costruito nel corso del XX° secolo nel continente.
Come però ha scritto il prof. Fabbrini (Sole24ore, 15 settembre), il Rapporto, “coraggioso sul piano delle proposte” è però “timido su quello della governance”, e questo lo indebolisce, costituendone il tallone d’Achille. Dunque anche il prof. Fabbrini teme il “cassetto”.
Alcuni interventi, in ogni caso, si potrebbero realizzare, senza costi e con indubbi benefici: la semplificazione normativa e delle regole – come ha scritto il prof. Prodi (Messaggero, 21 settembre) – “che vengono imposte a ogni tipo di attività dal complicato intreccio fra le disposizioni europee e le legislazioni nazionali”.
E si potrebbe pure, volendo, “accelerare il processo decisionale” dell’Unione (come auspicato dal Rapporto) ampliando i campi nei quali poter adottare la c.d. “maggioranza qualificata”, strumento che in qualche caso ha già dimostrato una certa efficacia.
Ma per tutto il resto, è evidente, occorre quella che una volta veniva definita la “volontà politica” degli Stati membri. Purtroppo è proprio quella che ad essi al momento manca, nel loro ripiegarsi su sé stessi trascinati in fondo da una quota di elettorato intimorita dalle migrazioni – nemmeno così massive, peraltro – provenienti in prevalenza dal continente africano. Condannandosi però, ammonisce e teme Mario Draghi, a quella “lenta agonia” che con il suo lavoro egli ha provato a esorcizzare.
In allegato il sito per consultare il rapporto Draghi in italiano e il formato di lettura pdf integrale
Foto copertina euronews.com