Con millenni di una storia molto travagliata sulle spalle i giovani egiziani scesero in piazza, nel 2011, per protestare contro il regime militare che gli opprimeva. Oggi a 15 anni di distanza la situazione è tornata al punto di partenza con i giovani impiegati ad affrontare servizi scadenti e una corruzione dilagante. Vista la situazione lo sconforto potrebbe prendere il sopravvento ma i piccoli segnali di insofferenza continuano ad aumentare sempre di più.
È l’11 febbraio 2011 le persone continuano ad accalcarsi in una Piazza Tahrir già stracolma di gente per l’ennesimo giorno di proteste.
Da 18 giorni il popolo egiziano è sceso in strada, in massa, per chiedere la fine del regime che gli opprime e le dimissioni del suo leader Ḥosnī Mubārak, da 30 anni Presidente del paese. All’improvviso una notizia si diffonde tra la folla: il presidente dopo giorni di proteste e negoziati è stato abbandonato dalle forze armate e costretto a rassegnare le dimissioni.
Subito esplode un grido di gioia tra la folla che tra una miriade di bandiere rosse, bianche e nere inizia a festeggiare la fine della dittatura. Sembrava l’inizio di una nuova era che avrebbe portato il paese sulla strada della democrazia, della libertà e del benessere economico.
Ma questa bella speranza non sarebbe durata a lungo.
Una storia millenaria
la storia dell’Egitto parte convenzionalmente nel 3100 a.C. quando il primo faraone Menes unificò il paese dando vita alla I° dinastia.
Da allora la civiltà egizia iniziò a svilupparsi, tra alterne vicende, nel corso dei secoli lasciando ai posteri molte testimonianze del proprio strabiliante sviluppo. Basti pensare che la piramide di Cheope, costruita intorno all’2550 a.C, rimase l’edificio più alto al mondo fino alla costruzione della torre Eiffel nel 1889.
La fine di questa grande civiltà si ebbe con la conquista persiana nel IV secolo a.C. da allora l’Egitto fu parte dei grandi imperi persiano e macedone per poi ottenere nuovamente l’indipendenza sotto la dinastia greca dei tolemaici che governò il paese fino alla conquista romana nel 30 a.C..
Sotto i romani divenne una delle province più ricche dell’impero (nonché uno dei primi luoghi dove il cristianesimo ebbe una vasta diffusione).
Tale situazione durò fino al 642 d.C. quando gli arabi in piena espansione conquistarono l’intera provincia che da allora è parte del mondo arabo e mussulmano. Governata dalle varie dinastie che si succedettero alla guida della comunità mussulmana l’Egitto fini nel 1517 nell’orbita dell’Impero ottomano preservando comunque un ampio grado di autonomia.
Il grande punto di svolta arriva nel 1798 quando un esercito della Francia rivoluzionaria, guidato da Napoleone, conquistò vaste porzioni del territorio egiziano provocando il collasso del sistema di governo che si reggeva da quasi tre secoli. Dal caos che ne seguì emerse come vincitore Mehmet Ali, considerato il fondatore dell’Egitto moderno, che iniziò a perseguire una politica sempre più indipendente da quella dei sultani ottomani.
I suoi discendenti continuarono a governare l’Egitto fino agli anni ’50 subendo la penetrazione politica, economica e militare dell’Impero britannico che ridusse l’Egitto di fatto a una propria colonia.
Il Canale di Suez, inaugurato nel 1869, era infatti di proprietà di Gran Bretagna e Francia che ne amministravano la gestione e incameravano gli introiti derivanti dalle tasse di transito. Questo stato di cose permase fino alla rivoluzione del 1952 (più che altro un colpo di stato) in cui un gruppo di ufficiali depose il sovrano e proclamò la repubblica alla cui testa si pose un giovane tenete colonnello di nome Gamal Abd el-Nasser. Il nuovo presidente divenne l’alfiere di un nuovo movimento ideologico centrato sul socialismo e sul nazionalismo arabo.
Nasser imperniò la propria politica sulla fine della dipendenza dalle potenze ex-coloniali (in primis Gran Bretagna e Francia) e sul contrasto al neonato stato di Israele portando nel contempo avanti un’agenda pan-arabista.
La politica nasseriana dopo un iniziale successo nel ‘56, con la riuscita nazionalizzazione del Canale di Suez subì una netta battuta d’arresto con la Guerra dei Sei Giorni (nel 1967) in cui Israele sconfisse nettamente gli stati arabi coalizzati contro di lui.
La sconfitta non segnerà la caduta di Nasser che comunque morirà amareggiato tre anni dopo.
Al suo posto assunse la carica di presidente Anwar al-Sadat che nel ’73 lanciò un’altra guerra contro Israele che sebbene conclusasi, di fatto, con un pareggio permise a Sadat di rivendicare una vittoria quantomeno politica. Da lì il presidente avvio un periodo di distensione diplomatica che culminò nel 1978 con gli Accordi di Camp David con cui l’Egitto riconosceva lo stato israeliano. Tali accordi, accolti con ostilità da un a parte della popolazione, costarono la vita al presidente egiziano assassinato tre anni dopo.
Morto Sadat gli succedette alla massima carica dello stato il suo vice presidente Hosnī Mubārak che rimarrà al potere fino alla primavera araba del 2011. Con Mubārak si consolidò il sistema di controllo e dominio delle forze armate che divennero pervasive in ogni ambito della vita pubblica.
Con Mubārak l’esercito divenne onnipresente e si instaurò un regime militare capace di durare per i successivi trent’anni. Fino infatti a quando l’Egitto venne travolto dal movimento di proteste delle “cosiddette” primavere arabe in cui il vecchio dittatore, abbandonato oramai anche dalle forze di sicurezza, venne costretto a dimettersi sostituito da un governo provvisorio col compito di traghettare il paese verso le prime libere elezioni della sua storia.
Elezioni poi effettivamente tenutesi tra il maggio e il giugno del 2012 che vide emergere come vincitore Mohamed Morsi, esponente di spicco dei Fratelli Mussulmani, un movimento islamista che a lungo si era opposto alla dittatura militare laica e socialista.
Il governo di Morsi che promise fin da subito grandi interventi strutturali per migliorare le condizioni della popolazione assicurando al contempo che la Shari’a (la legge coranica) sarebbe stata solo una fonte di ispirazione e non parte integrante della giurisprudenza egiziana. Tuttavia una situazione economica che stentava a migliorare e una forte opposizione della minoranza copta e dell’area più laica della popolazione che temeva una deriva islamista della politica di Morsi portarono a un nuovo ciclo di proteste contro il governo.
Fu a questo punto che l’esercito prendendo atto delle richieste dei movimenti di protesta (che probabilmente aveva anche sostenuto sotto banco) attua, il 3 luglio 2013, un nuovo colpo di stato che esautora Morsi e installa al potere una giunta militare.
Leader di questa giunta è il generale ʿAbd al-Fattāḥ al-Sīsī (attuale presidente) che di fatto riporta indietro le lancette dell’orologio a prima della primavera araba restaurando il controllo assoluto delle forze armate sulla vita politica ed economica dell’Egitto.
L’economia nell’Egitto di al-Sīsī
Con un PIL di 476,75 miliardi [1] di $ l’Egitto possiede una delle economie maggiori del continente africano potendo vantare vasti giacimenti di risorse energetiche (soprattutto gas) un settore turistico fiorente e cospicui introiti derivanti dai pedaggi per il transito attraverso il Canale di Suez (una delle principali vie del commercio mondiale).
Al-Sīsī nel 2016 ha ottenuto il finanziamento, da parte dell’IMF, di un prestito triennale ammontante in totale a 12 miliardi di $ subordinato però alla creazione di un estensivo piano di riforme.
Pertanto il governo ha portato avanti una serie di iniziative economico-sociali per la popolazione.
Tra queste ricordiamo l’introduzione di un sussidio per i meno abbienti, l’aumento del salario minimo, delle pensioni e una serie di misure volte alla diminuzione della disoccupazione (in particolare quella giovanile che si attestava al 32,4% [2]).
Queste misure hanno contribuito al miglioramento delle condizioni economiche a cui hanno anche contribuito la vendita di materie prime e il turismo (due tra principali fonti di introiti del paese). Tuttavia il grande vulnus dell’economia egiziana è tuttavia la pervasività delle forze armate nel tessuto economico.
L’esercito controlla le principali aziende pubbliche e di fatto hanno l’ultima parola nell’assegnazione degli incarichi lavorativi.
Un giovane che si affaccia sul mondo del lavoro in Egitto deve scontrarsi con un sistema di logiche clientelari dove viene premiato chi può vantare delle raccomandazioni o un allineamento all’ideologia del regime (molto spesso anche entrambe le cose).
Il governo in effetti ha messo in piedi misure per aumentare l’occupazione ma nell’assegnazione dei posti di lavoro vengono privilegiati i cittadini considerati più fedeli piuttosto che i più capaci mentre gli altri si devono accontentare degli impieghi meno retribuiti o, in alternativa, di un magro sussidio di disoccupazione.
Vista la situazione molti giovani vedono come migliore alternativa quella di emigrare, il che rappresenterà un grosso problema per il sostegno della crescita economica in futuro in quanto una buona fetta dei giovani più capaci lavorerà e produrrà ricchezza all’estero piuttosto che in patria.
Bibilografia e Sitografia
- [1] Word Bank
- [2] Atlante Geopolitico Treccani edizione 2020
- [3] Agenzia Centrale per la Mobilitazione Pubblica e la Statistica (CAPMAS)