Se è vero, come è stato affermato a Cannes, che i Francesi amano molto Nanni Moretti, la ragione va cercata in quel gusto, tutto celtico, delle complicazioni intellettuali e psicologiche. Infatti, una delle chiavi di lettura per la comprensione del film Il sol dell’avvenire potrebbe essere la complessità psicologica che Nanni Moretti mette in campo, come sempre, anzi con una solerte esasperazione delle sue manie, delle sue ossessioni, dei suoi tic, a partire dalle scarpe, che, per carità, non devono essere pantofole, (per non parlare dei sabot che gli fanno letteralmente saltare i nervi), fino all’esasperante declamazione di come deve essere fatto il buon cinema e quindi di come si debba, anzi non si debba, girare una scena di violenza.
Cosicché, a un certo punto del film, Giovanni (Moretti), protagonista, piomba nel bel mezzo di un film, dove lavora anche Paola, Margherita Buy, sua moglie e dove il giovane regista, sta girando la scena di una esecuzione con la pistola, e gli impone una nevrotica reprimenda costringendolo, quasi in ostaggio, a tenere in posa per otto ore nella notte ghiacciata due attori, l’uno con una pistola puntata e l’altro in ginocchio in attesa di essere sparato. Giovanni, è un regista annoiato, deluso, depresso, incapace di vedere la crisi del suo matrimonio e sta scrivendo un film tratto dal romanzo Il nuotatore di Jonhn Cheever, ma questo è soltanto uno dei segmenti della complessità strutturale che è alla base del linguaggio da metacinema che Moretti arma per raccontarsi. Infatti, l’incipit, ambientato a casa sua dove è in dialogo con la moglie, scivola subito in un altro film, che Giovanni sta girando, ambientato nel 1956, quando la rivoluzione ungherese, repressa ferocemente dal regime sovietico, mette il PCI in una situazione imbarazzante.
Il film narra appunto il conflitto tra il segretario di una sezione PCI romana, Ennio, interpretato da Silvio Orlando, redattore anche dell’Unità, e Vera, la moglie comunista, interpretata dalla Bobulova, che appoggia le ragioni ungheresi, mentre Ennio aspetta e si conforma alle decisioni del partito centrale. Nel frattempo il film si blocca perché il produttore francese, Pierre, gravemente indebitato, viene arrestato, e dopo un pirandelliano colloquio con Netflix, Giovanni e Paola accettano una produzione coreana a cui piace molto il finale col suicidio del protagonista Ennio, incapace di decidere tra la moglie schierata per l’Ungheria e il Partito che ha deciso diversamente. Quando Paola, una mattina nella loro casa di Roma, gli comunica che vuole separarsi, perché lui è insopportabile, e che è in terapia, da tempo, da un psicanalista, Giovanni entra in un profondo e buio mood, dal quale emerge con una soluzione alternativa del film.
Eliminato il suicidio, si convince che la storia si può fare anche con i se, con la capacità di inventarsi soluzioni diverse da quelle cristallizzate nel tempo, ma che ancora non riesce ad accettare. Ennio, che non ha più nessuna intenzione di morire, accoglie la posizione della moglie di sostenere l’Ungheria e organizza una ciarliera e sognante marcia di tutto il cast verso le finestre di Botteghe Oscure, dove alla fine Togliatti opta per una soluzione che non c’è nella storia. Cosicché l’Unità può uscire in prima pagina con “Unione Sovietica addio!” e si può realizzare in Italia il sogno dell’utopia comunista come l’avevano pensata Marx ed Engels. Che è poi la scritta di fine pellicola.
È un film desolato, nonostante il corteo, la danza sufi alla Battiato, le canzoni che anch’esse narrano il sogno di Moretti di fare un film di canzoni e con le canzoni, i cammei di personaggi famosi e le citazioni da molti autori, maestri del cinema, non soltanto italiano e con buone dosi di autoironia. Ma è da vedere e, forse, non una sola volta. Perché è la narrazione del nostro tempo, con la sua complessità e con la sua schizofrenia, col peso della violenza e con la leggerezza della musica e del sogno. E col volo non soltanto emotivo, ma anche mentale, delle grandi illusioni di foscoliana memoria. Perché no. Perché il compito dell’arte e quindi, anche del cinema, non è soltanto registrare la realtà nella sua negatività, ma anche quello di elaborare il sogno possibile, il riscatto. Lo dichiara Moretti in un’intervista al Corriere della Sera. E non si fa fatica ad essere d’accordo. In fondo, anche darsi all’utopia può essere un gesto estetico. Il film è da vedere, perché pone interrogativi e mette anche lo spettatore in grado di porseli.