A 98 anni dalla sua prima pubblicazione, il romanzo di F.S Fitzgerald, è a tutti gli effetti un grande classico moderno, è un glorioso e sontuoso biglietto da visita per i “ruggenti anni ‘20”, un periodo di storia statunitense tra i più curiosi.
Leggerlo, oggi, significa mettere a nudo quelle che sono state le aspettative, le idee, ma anche le falsità e le ipocrisie dell’alta borghesia americana, che instaura prima di tutto un duello con sé stessa, perché restino nascosti aspetti del proprio comportamento che desidera non vedere.
La società del “Grande Gatsby”, molle, marcia e ipocrita, è uno spaccato del tempo, il cui messaggio, tendendo l’orecchio, si può forse sentire echeggiare ancora oggi.
Conosciuto come uno dei libri simbolo dell’Età del Jazz, “Il grande Gatsby”, di Francis Scott Fitzgerald, datato 1925, viene letto da molti come un vero e proprio “biglietto da visita” di quello straordinario periodo, la cui improvvisa e brusca fine, col terremoto finanziario del 1929, contribuisce a renderlo ancora più affascinante.
La civiltà nuova, moderna, opulenta dipinta nelle pagine del (breve) romanzo ci appare, infatti, come uno stranissimo balletto sull’orlo del precipizio della follia, un vero e proprio invito a “godersi il tempo che resta”. Si tratta di un affascinante biglietto da visita per l’edonismo più sfrenato, in un moto generale di slancio verso il futuro che si concretizza nell’entusiasmo collettivo per il presente.
Jay Gatsby, l’eccentrico miliardario cui l’interpretazione di Leonardo DiCaprio sul grande schermo rende certamente giustizia, è proprio questo: l’insieme degli entusiasmi e delle aspettative sociali, che proprio perché è il personaggio di un romanzo può permettersi di rappresentare meglio di chi sia mai esistito. Incarna un’età a tutto tondo, riprendendone l’incontenibile frenesia, ma anche l’insensato sfoggio di opulenza pur di apparire e persino le ipocrisie.
Un romanzo, quello di Fitzgerald, che è forse un “Pirandello al contrario”, perché narra a tutti gli effetti di una maschera che cerca di diventare umana, di acquisire un’importanza, un rango, una storia. Il turbolento amore con Daisy, cugina del protagonista, che non a caso viene da un’importante dinastia di “nobiltà americana”, è proprio questo: ambizione a liberarsi della maschera per essere uomo, come il Pinocchio di Collodi che vuole diventare un bambino vero. Chi da il titolo al romanzo, non a caso uno dei “Nuovi ricchi” della borghesia imprenditoriale e finanziaria di Wall Street che proprio in quegli anni fece capolino sulla scena mondiale, è disperatamente in cerca di un’identità, forse anche quasi della conferma di essere vero.
È proprio quell’insicurezza di fondo, derivante non da una persona ma da un coacervo di aspettative sociali ipocrite, prima di tutto il fatto che i “ricchi storici” di Coney Island non lo accettino in una nazione che celebra il mito del “self-made men”, a influenzare le scelte di Jay.
Egli vuole, per così dire, “accontentare tutti”, diventare anche lui membro di punta della crescente e fiorente società americana. Date, però, proprio le falsità e le ipocrisie di chi si è ingozzato alla sua tavola senza omaggiarlo nemmeno con un fiore, alla fine il suo disperato tentativo di essere accettato genera una tensione che si spezza sfociando in uno scontro, che finisce per allontanarlo da quel mondo.
Egli si rifugia, per questo, nella sua straordinaria propensione alla speranza di un futuro migliore, che però si spezza inevitabilmente contro le ipocrisie di un mondo che, come dice il protagonista e narratore “è marcio”, e anche di fronte al suo indiscutibile merito gli nega una storia, e la cui ipocrisia ne misconosce la grandezza.