La presentazione delle liste si è ormai ultimata a parte qualche limatura dell’ultima ora. Centro-destra, centro-sinistra, terzo polo e Movimento 5 Stelle saranno i principali protagonisti del voto il 25 settembre.
Il centro-destra sarà schierato con Fratelli d’Italia, Lega (per Salvini Premier, anche se trattasi di distico ormai un po’ démodé, resta la denominazione della lista), Forza Italia e centristi vari (Lupi, Cesa, Toti e Brugnaro) sotto le insegne di Noi moderati.
Il centro-sinistra raccorderà PD (con la lista Italia Democratica e Progressista, in cui saranno presenti anche esponenti di LeU), Sinistra italiana e Verdi, Di Maio e altri transfughi del M5Stelle insieme a Tabacci e altri centristi nella lista Impegno civico e Più Europa di Emma Bonino e Benedetto della Vedova. Il Movimento 5 Stelle correrà da solo. E il cosiddetto “Terzo polo” sarà rappresentato dalla lista comune di Azione e Italia Viva, Calenda Renew Europe.
Già da questa variopinta offerta elettorale è possibile concludere che in Italia il bipolarismo può ormai essere dato per sconfitto. Il suo fallimento si deve anzitutto all’incapacità dei partiti che avrebbero dovuto essere il perno centrale dei rispettivi schieramenti, Forza Italia e PD, di esercitare una leadership egemone sui partiti delle rispettive coalizioni che esprimono posizioni più radicali.
Fallita è l’operazione del PD di rappresentare il fulcro del centro-sinistra, a causa delle spinte di Sinistra italiana, Verdi e sinistra interna dello stesso partito di Letta. Fallimentare, del resto, è risultato anche il tentativo di aggregare all’interno di questo schieramento il Movimento 5 Stelle, dopo la scelta di Conte di affondare il governo Draghi.
Ma fallito è pure il tentativo di Forza Italia di rappresentare il principale partito, su posizioni moderate, del centro-destra. Ormai Berlusconi e ciò che di Forza Italia resta in campo (dopo l’uscita di Brunetta, Carfagna e Gelmini, insieme ad altri quadri che li hanno seguiti a livello locale) appaiono sempre più nelle mani di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, due leader di impronta chiaramente sovranista, che nulla hanno di moderato e che in Europa vantano rispettivamente legami privilegiati con Victor Orban e Marie Le Pen.
Le ragioni del fallimento del bipolarismo all’italiana sono molteplici, ma non è certo questa la sede più idonea per entrare nel merito delle possibili cause che hanno portato a questa anomala egemonia esercitata al contrario delle forze radicali su quelle riformiste e moderate.
Lo stesso richiamo alla recentissima esperienza del governo Draghi è alla fine dei conti risultato molto debole. E se nel centro-sinistra è stato comunque sufficiente a consumare una rottura – non si sa se e quanto definitiva – fra PD e 5Stelle, nel centro-destra è stato solertemente accantonato, dietro la spinta avvertita da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia a correre insieme in vista di una vittoria annunciata.
Del resto, quello di Draghi era un governo di unità nazionale nato per iniziativa del Presidente della Repubblica in una situazione di emergenza economica e sanitaria. Così che, alla fine, il richiamo alla cosiddetta “Agenda Draghi” si è dimostrato per molti partiti poco più di un’etichetta di maniera, di fronte al richiamo delle dinamiche elettorali e all’opportunità di tornare in campo senza i vincoli e laccioli rappresentati da un esecutivo la cui iniziativa politica era guidata da una salda collocazione atlantica ed europea, oltre che da una logica pragmatica volta ad affrontare e risolvere davvero i problemi.
Più che di “Agenda”, chiaramente orientata da priorità in gran parte indipendenti dalle scelte politico programmatiche dei partiti di maggioranza, e per certi versi indigeste agli stessi partiti di governo, avrebbe avuto senso parlare di “Metodo Draghi”, che poi altro non sarebbe che uno stile di governo riformista, finalizzato a dare risposte possibili ed economicamente sostenibili alla congerie di urgenze che assillano un paese strutturalmente in difficoltà e palesemente ingovernabile come l’Italia.
Forse, l’unica proposta politica che potrebbe richiamarsi senza grosse contraddizioni e imbarazzi all’esperienza di quel governo è la lista di Calenda e Renzi. Troppi, da una parte e dall’altra, coloro che non vedevano l’ora di liberarsi dell’ingombrante presenza di un Presidente del consiglio autorevole, autonomo ed efficace.
Il giorno delle elezioni si avvicina sempre più rapidamente. Con annose questioni aperte che restano sul tavolo, rispetto alle quali nessuno degli schieramenti in campo sembra disporre di una ricetta sufficientemente credibile.
Dal finanziamento degli aumenti degli stipendi agli insegnanti con i fondi del PNRR al blocco navale per contrastare i flussi migratori, dalle soluzioni per la transizione ecologica alla flat tax o la pace fiscale, l’impressione che si trae nel leggere le proposte programmatiche sottoposte al vaglio degli elettori è che nessuno abbia davvero fatto i conti fino in fondo con la realtà. In queste condizioni, è assai probabile che questa strana campagna elettorale estiva lascerà a molti cittadini l’amaro in bocca.
E gli italiani che, con l’approssimarsi del voto, rimpiangeranno i tempi ormai politicamente lontani del governo Draghi saranno inevitabilmente destinati a crescere. Perché si può chiamare in causa la cosiddetta “Agenda Draghi” come fosse la Madonna pellegrina, oppure manifestare apertamente la propria fede atlantista e la propria convinta adesione all’Europa come fosse una giaculatoria, ma tutto ciò conta ben poco.
Gli elettori, il cui quoziente intellettivo è superiore a quello che tendono ad attribuire loro le forze politiche in campo, già in autunno, subito dopo il voto, avranno la riprova di quanto il ritorno alle urne sia stato inutile.
Dietro l’angolo, infatti, ci aspettano i delicati passaggi di attuazione del PNRR, ai quali è subordinata l’ulteriore erogazione dei fondi europei, e la nuova Legge di Bilancio, che in assenza di un governo autorevole tornerà a essere a rischio, incarnando le tradizionali sembianze di quel provvedimento “omnibus” attraverso il quale i partiti erano soliti creare facile consenso elargendo politiche distributive a pioggia.
Certo, si potrà sostenere che sia ormai necessaria quanto urgente una riforma istituzionale. Alcune forze politiche già avanzano la proposta del presidenzialismo. Ma fintanto che il sistema dei partiti non si sarà stabilizzato grazie a leadership e soggetti politici in grado di smettere i panni del Gatto e la Volpe nel Paese dei Balocchi, sarà difficile concretizzare un’azione di governo in grado di far ripartire il paese. E l’effetto regret del governo Draghi sarà sempre più intenso.