La nuova Commissione Europea, ancora guidata da Ursula von der Leyen, è partita senza alcun entusiasmo. Votata dal Parlamento Europeo più per mancanza di alternative che per convinzione. E infatti votata col minor numero di consensi di sempre. Con una maggioranza che è andata di fatto modificandosi fra settembre e novembre, spostandosi all’incirca – detto qui solo per offrire un riferimento di massima – dal centrosinistra al centrodestra. La questione relativa alla vicepresidenza esecutiva dell’italiano Fitto è stata l’emblema di questa traslazione che ha provocato divisioni nel voto all’interno delle delegazioni dei partiti, sia fra i socialisti sia fra i popolari, ma anche fra i verdi e i conservatori, e delle maggioranze governative, sia di sinistra sia di destra, in Spagna, Germania, Italia.
Von der Leyen nel corso di questi mesi ha annusato l’aria e con il senso tattico privo di qualsiasi respiro strategico che la contraddistingue ha percepito e quindi interpretato lo spostamento a destra dell’elettorato europeo e dello stesso emiciclo di Strasburgo: le elezioni in Austria con la vittoria dell’estrema destra locale, la costituzione intorno a Viktor Orbàn del gruppo dei Patrioti, la caduta del governo Sholz in Germania e altri episodi minori hanno suggerito alla scaltra Presidente di giocare proprio la carta Meloni per allargare la maggioranza ponendo un argine alla Destra estrema ma sapendo di perdere qualcosa a sinistra. Operazione riuscita, con tanta fatica e con numeri risicati.
Ecco perché la Commissione Ursula 2 avvia i propri lavori in condizioni di debolezza e priva di un orizzonte strategico. Al punto che nel suo discorso successivo al voto del Parlamento la Presidente ha dovuto ritirare fuori dal cassetto il Rapporto Draghi per poter dire qualcosa di interessante dal punto di vista prospettico. Perché altro non c’è.
E dire che la situazione internazionale, così difficile e così imprevedibile ora che è in arrivo nuovamente Donald Trump, reclamerebbe un’Europa protagonista sullo scenario mondiale. Le premesse, però, non ci sono affatto. In luogo della volontà comune che necessiterebbe prevalgono al contrario le dinamiche nazionali con tutte le loro diramazioni localistiche, e con esse il “modello intergovernativo”, ancorché a sua volta segmentato fra crescenti crepe interne a ogni singolo esecutivo, inclusi quelli più apparentemente stabili (come quello italiano).
Consapevole di ciò – e francamente non sappiamo se realmente dispiaciuta o se piuttosto realisticamente convinta di non aver alcuna forza e capacità per cambiare la situazione – Von der Leyen ha attivato la propria abilità manovriera nel Palazzo e la visibilità acquisita fuori da esso per condurre in porto la propria riconferma. All’insegna del piccolo cabotaggio, ma nella convinzione, associata all’interesse, che nel contesto dato l’obiettivo primario è la sopravvivenza, anche dell’Unione, non solo la sua, e poi si vedrà, navigando a vista e sempre sotto costa.
Non è più tempo di grandi traguardi (come fu per un breve periodo, agli inizi del primo mandato, e pur fra qualche eccesso ideologico, il Green Deal) e per questi – da indicare ma senza immaginare poi di perseguirli davvero – c’è il Rapporto Draghi e magari anche quello Letta.
La maggioranza è fragile, divisa, addirittura divisa anche fra i gruppi politici dell’Europarlamento: il vento antieuropeista che è tornato a spirare un po’ ovunque ha indebolito ogni afflato comunitario e Von der Leyen ne ha preso atto, con la freddezza che contraddistingue gli abili politici ma senza il pathos che solo quelli fra essi di grande spessore sanno emanare e diffondere.
La scelta dei Commissari, e con essa la distribuzione delle deleghe, ha seguito questo ragionamento sconfortante (o sconfortato, a seconda di come si valuti il reale sentimento, all’apparenza enigmatico, di Ursula) e le burrascose dimissioni di quello fra essi di maggior rilievo nel precedente esecutivo europeo, il francese Thierry Breton, lo testimoniano: troppo ingombrante per la leader e dunque fatto scaricare da un Macron a sua volta in grandi difficoltà interne. Perdendo in qualità e brillantezza, ma evidentemente non è questo che oggi si privilegia a Palazzo Berlaymont.
E così, alla fine la nuova Commissione si presenta ai cittadini europei all’insegna dell’ambiguità: una Presidente con un consenso debole ma unico dominus dell’esecutivo comunitario. Col suo protagonismo (ampiamente criticato e mal tollerato durante il precedente mandato) a volte anche avventuroso cercherà di occupare gli spazi che leadership nazionali indebolite stanno lasciando vuoti. Ambizione eccessiva? Speranza vana? Illusione illuminista? Probabile.
Foto Copertina fonte Unione Europea