Quiet quitting. Ovvero l’osservazione dei modelli e dei valori che si stanno affermando nel mondo del lavoro e forse anche un fallimento dei manager.
Ho deciso! Non ne posso più. Ci sono altre cose nella vita e certo più importanti. La famiglia, gli amici, le relazioni insomma e poi a me piace tanto andare a cavallo. Invece sono sempre qui, con scadenze estenuanti…Ho deciso, da oggi faccio quiet quitting. Cosa vuole fare il nostro amico? Semplice, adottare un atteggiamento che sta prendendo piede nel mondo del lavoro, in tutto il mondo. Ovviamente nel mondo dove i lavoratori possono permettersi di compiere scelte, anche di contrasto o sottilmente non allineate, con l’impresa per cui lavorano.
Ci riferiamo a un modo di lavorare che prevede l’indispensabile per non farsi “cacciare”, lo stretto necessario insomma e niente più. Niente straordinari, nessuna responsabilità che non sia strettamente prevista dai contratti di lavoro, magari interpretati ad arte con un lavoro certosino di esegesi. Il mondo del lavoro ci sorprende sempre, ci sorprende perché ha un connotato assai particolare rispetto ad altri che è quello della velocità con cui evolve, si trasforma, alle volte radicalmente infrangendo prassi di anni e anni. Superando spesso anche la posizione delle organizzazioni sindacali che oramai sono costrette a fare politica per affermarsi, sostenute per lo più dalle tessere dei pensionati.
Negli ultimi anni, complice indesiderata la pandemia, gli schemi abituali e i valori ad essi correlati sono andati in crisi. L’identificazione con la propria azienda è saltata e il turn over è schizzato alle stelle. I recruiter impazziscono per trovare le persone disposte a coprire le posizioni che il mercato offre a condizioni economiche che ormai non hanno più senso. La struttura gerarchica aziendale e il concetto di presenza fisica in azienda sono superati e addirittura invisi soprattutto ai lavoratori più giovani ma non solo. Tutte queste cose sono state sostituite in un lampo.
Ora prevale la flessibilità, l’autonomia, un maggiore equilibrio e una maggiore serenità. Queste sembrano essere oggi le condizioni maggiormente desiderate. Da qui, da questo nuovo sentire il lavoro, nasce e si sviluppa in modo travolgente il nostro quiet quitting, tradotto da molti con “abbandono silenzioso”. Ma nel mondo delle istituzioni il dibattito su questo tema stenta, appare marginale. Non ci sorprende. Allo stesso modo pare però ancora poco compreso anche da chi di lavoro dovrebbe occuparsi per necessità, per fare impresa, per fare business.
Dovrebbero capire che questo fenomeno è la punta dell’iceberg. Sotto il livello del mare si sviluppa una corrente impetuosa che porta il rifiuto totale di una cultura del lavoro, in essere sino a poco fa, che vedeva la più parte dei lavoratori dedicarsi completamente alla loro attività professionale, con pochi spazi residui. Un impegno per molti così intenso da farli precipitare nel burnout, una sindrome da esaurimento. Ma perché è successo ciò che non ci si aspettava? Cosa è successo nel mondo del lavoro di così impattante da rompere schemi che sembravano consolidati, immutabili? Una piccola “cosa”, il virus Covid 19, forse qualche colpa l’ha.
Negli anni della pandemia le persone hanno improvvisamente rivaluto ciò che stava loro intorno; la famiglia, gli amici, la casa, gli hobby. In molti si sono accorti che questo” intorno” valeva molto più di un piccolo aumento di stipendio e di un premio falcidiato dalle imposte di uno Stato rapace e così, lentamente ma inesorabilmente, hanno cominciato a spostare i loro sforzi altrove.
Qualcosa poi ha dato forse una mano al nostro odiato virus. L’incapacità (o forse la volontà) della classe dirigente di coinvolgere i lavoratori, di farli sentire parte di un progetto complessivo, di renderli consapevoli dei successi e degli insuccessi della loro attività. Il report di Gallup, “State of global workplace” ci segnala che solo il 14% dei lavoratori europei si sentono coinvolti negli obiettivi della propria azienda. Forse si è anche qui innescato un processo di polarizzazione. Un ristretto numero di super dirigenti convinti di poter disporre, come semidei, di ogni cosa e una moltitudine di esseri, a parer loro, inutili, gestiti con attenzione al solo fine di evitare fastidiose tensioni aziendali e sociali.
Il fenomeno del “quiet quitting” rappresenta dunque, nonostante l’apparenza negativa, la scintilla di un notevole cambiamento culturale nel modo in cui lavoratori, imprese e istituzioni devono affrontare il lavoro e la vita privata. Un cambiamento che, nel medio lungo periodo, può portare a benefici sia per i lavoratori sia per le imprese, ma richiede un dialogo intellettualmente privo di pregiudizi e un vigoroso adattamento delle politiche e delle pratiche lavorative. Nel lungo periodo, il “quiet quitting” potrebbe davvero spingere verso una cultura lavorativa più sostenibile e centrata sul benessere di tutti i lavoratori.
Ora basta, smetto di scrivere, spengo il pc. Non vorrei dare l’idea di predicare bene ma razzolare male…
Fonti