La campagna elettorale incede distrattamente verso la sua ultima settimana. E nei giornali italiani, sulle cui pagine infuria la polemica fra leader di destra, sinistra e centro, si affaccia una notizia che una democrazia robusta e dalle solide basi (come l’Italia fatica a essere) dovrebbe destare quanto meno un certo interesse. Strasburgo: il Parlamento europeo vota una risoluzione contro l’Ungheria di Orban, a cui si rimprovera una postura poco democratica e perciò stesso in contrasto con i valori fondativi dell’Unione Europea, e i gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia e Lega vi si oppongono. Chiamati a rispondere di questa scelta, sia Meloni sia Salvini, giustificano la scelta dei propri europarlamentari sostenendo che è ora di smetterla di perseguitare il povero Orban, che è stato votato dal popolo ungherese e quindi è pienamente legittimato a governare quella che a tutti gli effetti è una democrazia.
“La sovranità popolare appartiene al popolo”, dicono i leader di Fratelli d’Italia e Lega, e il popolo in Ungheria l’ha esercitata votando Orban. Di primo acchito, sembrerebbe non esservi nulla da ridire. Il popolo ha votato per Orban e Orban governa in nome del popolo. Ma è forse vero che governa anche per il popolo? Ed è possibile governare per il popolo conculcando i suoi diritti e usando violenza contro i propri oppositori?
Meloni e Salvini dimentichi dei loro studi superiori, che forse sono stati rimossi in nome di una precoce adesione a una cultura politica che ne dava per irrilevanti alcuni contenuti, scordano che – almeno qui da noi, nel tanto vituperato Occidente, nell’angolo di mondo in cui ci accade di vivere – una democrazia si costituisce in base a due pilastri essenziali. Un pilastro che rinvia al voto popolare, al consenso liberamente espresso dagli elettori nei confronti di chi li governa attraverso un voto competitivo, segreto e frequente. E un pilastro che rinvia ai diritti e alle garanzie costituzionali che il regime democratico riconosce, in certezza di diritto, a tutti i suoi cittadini, indipendentemente da sesso, razza, religione, credo politico, oltre che alla separazione e all’equilibrio fra i diversi poteri nei quali si riconosce lo Stato, quello legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Pilastro popolare e pilastro costituzionale sono ciò che fa di una democrazia, almeno nel mondo Occidentale, quel particolare regime che è.
Senza il primo pilastro, non possiamo considerare di trovarci di fronte a un regime democratico, perché senza elezioni libere, competitive e frequenti un regime non può considerarsi legittimato da chi vi si sottopone. La competizione elettorale, in tal senso, resta un requisito fondamentale per discriminare fra una regime democratico e un regime autoritario. Però si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente. Senza il secondo pilastro, infatti, possiamo al più trovarci in una democraduras o dictablandas, come si chiamavano nel secolo scorso le pseudo-democrazie del Sud America, o in un regime che, essendo solo parzialmente libero, non possiamo considerare compiutamente democratico, come in questo momento sono alcuni paesi del mondo occidentali, quali la Turchia di Erdogan, la Polonia di Morawieczi e – per l’appunto – l’Ungheria di Orban.
Non si tratta di una distinzione di poco conto. Freedom House, uno degli istituti indipendenti di ricerca fra i più prestigiosi al mondo sulla qualità democratica dei regimi contemporanei, in questo momento classifica l’Ungheria come un paese “solo parzialmente libero”. Certo, viviamo in un’epoca in cui la democrazia sembra tornata a essere una risorsa scarsa: vuoi per le critiche e gli attacchi che subisce sul fronte interno (paradigmatico, a tale proposito, è l’attacco a Capitol Hill il 6 gennaio dello scorso anno), vuoi per l’offensiva in corso sul fronte esterno (la guerra fra Russia e Ucraina ha assunto un valore quasi simbolico, in tal senso, anche se la stessa Ucraina non si può ancora considerare una democrazia compiuta). Tuttavia non può che destare sorpresa, sconcerto e preoccupazione che due fra i leader politici più accreditati per una possibile vittoria alle elezioni del 25 settembre, una dei quali – almeno sulla carta – destinata anche a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio, liquidino una questione di tale portata, specie in un momento come questo in cui il confronto fra democrazie e autocrazie è drammaticamente tornato un tema di straordinaria attualità, in maniera così improvvisata e grossolana.
Ricordando il titolo di un romanzo di Erich Maria Remarque, verrebbe da dire “Niente di nuovo sul fronte Occidentale”. Perché la destra italiana, nelle sue maggiori espressioni di oggi, quella leghista di Salvini e quella post-fascista della Meloni, non è molto familiare con la cultura liberale. E se proprio un tratto comune vi è tra i primi e i secondi è quell’idea grezza, impropria e semplificata di democrazia come consenso popolare che è comune ai populismi sotto ogni latitudine e in ogni epoca storica. L’idea per cui la democrazia è il popolo, tutto il popolo la pensa allo stesso modo e, guarda caso, io che la penso come il popolo, una volta ottenuto il consenso, sono l’unico legittimato a governare. Una concezione che, da un lato, esclude l’opposizione, il dissenso, la possibilità stessa che qualcuno la pensi diversamente, e dall’altro non pone limitazione alcuna all’esercizio del potere di governo, che si intende come promanazione diretta e incontrovertibile della volontà popolare.
Non per questo, però, crediamo che la vittoria del centro-destra, e l’eventuale ingresso a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, possa rappresentare un pericolo per la nostra democrazia. Ci mancherebbe altro! Dopo la sonora bocciatura delle ultime due riforme costituzionali sistematiche per via referendaria (quella di centro-destra dei cosiddetti “saggi di Lorenzago” e quella di centro-sinistra del “Tandem Renzi-Boschi”), vi è da aspettarsi una certa refrattarietà del popolo italiano ad approvare riforme in grado di modificare profondamente l’impianto costituzionale. È vero che in questo caso farebbe da traino il presidenzialismo, ma è altrettanto vero che – come già hanno rilevato opinionisti del calibro di Ferruccio De Bortoli, Angelo Panebianco e Ernesto Galli della Loggia – in Italia troppi sono i gruppi economici, le caste e le consorterie contrarie ad attribuire un peso maggiore al potere esecutivo e a chi ne esercita, sebbene pro tempore, la funzione.
Ciò tuttavia non impedisce di essere fortemente preoccupati per il fatto che, nel pieno della crisi internazionale che si è aperta con la guerra russo-ucraina, sul fronte che in questo momento oppone il mondo “occidentale” delle liberal-democrazie a quello “orientale” delle autocrazie, la posizione del nostro paese possa ritenersi a supporto di democrazie popolari con scarse garanzie costituzionali come Ungheria, Polonia, Turchia, con tutto ciò che ne può conseguire sia sul piano degli aiuti economici europei sia rispetto a quella solida integrazione comunitaria che un nuovo bipolarismo internazionale potrebbe richiederci come decisiva scelta di campo. L’Unione Europea oggi non può rinunciare alla difesa della democrazia rappresentativa, delle sue libertà e delle sue istituzioni, ed è evidente come sia disposta a colpire duramente anche gli stati membri che non condividano pienamente questo obiettivo strategico. Per dirla in breve: nel momento in cui si è il principale paese beneficiario del programma Next Generation EU, con gli oltre 191 miliardi di euro con cui Bruxelles alimenta il nostro Piano di Rinascita e Resilienza, non è proprio il caso di fare i “supporter” delle democrazie illiberali!
Ha perciò poco senso che la Meloni (Salvini, ad onor del vero, assai meno!) vada continuamente sperticandosi in proclami di piena adesione e fedeltà all’Alleanza atlantica, se a fronte di queste dichiarazioni di lealtà non perde comunque occasione per ribadire le sue convinzioni sovraniste e la ferma volontà di sostenerle in Europa, anche alleandosi con leader politici e di governo dalla dubbia cultura liberal-democratica. Non temiamo una torsione in senso autoritario della democrazia italiana. Più realisticamente, e pragmaticamente, temiamo che rivendicare di voler rinegoziare il PNRR e allo stesso tempo disconoscere le scelte europee in difesa della democrazia e della libertà (anche se non per sé, ma per gli altri, come nel caso del voto sull’Ungheria di Orban) porti il paese in un vicolo cieco. Allontanandolo da quell’ancoraggio atlantico, occidentale (ed europeo) che a parole si dichiara di voler condividere. Con ciò, cara Meloni, occorre assumere una postura internazionale più adeguata (come Lei stessa ama ripetere!). E magari farsi anche un rapido ripassino sui fondamenti della liberal-democrazia occidentale.