Presidente Trump: Ritorno al futuro
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca coglie l’Unione Europea in un momento di massima difficoltà. Non solo quelle che ha incontrato Ursula Von der Leyen nella composizione della nuova Commissione da lei presieduta.
Ma anche, e forse soprattutto, quelle derivanti dalle crisi politiche che vivono i due assi portanti dell’Unione, Francia e Germania.
A Parigi il nuovo esecutivo guidato da Michel Barnier e con tanta fatica ideato da Emmanuel Macron è apparso debole sin dal primo giorno e al contempo l’indice di gradimento del Presidente è ai minimi: fino al punto di considerare l’ipotesi delle sue dimissioni, fatto inaudito mai verificatosi (che, peraltro, è da ritenersi altamente improbabile).
A Berlino la crisi è invece già scoppiata. Dopo l’implosione della cosiddetta “coalizione semaforo” (un esperimento che non poteva durare a lungo e che infatti non è sopravvissuto alle sue contraddizioni interne) in Germania vi è chi sarcasticamente dice “ci stiamo italianizzando” (e non è certo un auto-complimento), alla luce delle imminenti elezioni anticipate, secondo lo stile della penisola e non certo di quello teutonico.
Degli altri leader dei paesi principali l’unica salda al potere è la nostra Giorgia Meloni, anche se deve patire la concorrenza chiassosa e marchiana, e sinora fastidiosa più che pericolosa, del suo alleato Salvini, ringalluzzito proprio dalla vittoria di Trump e rafforzato in Europa dalla sua adesione al nuovo gruppo sovranista degli auto-nominati “patrioti” guidati dal premier ungherese Orbàn.
In verità anche il polacco Donald Tusk è politicamente piuttosto forte, avendo vinto una dura battaglia elettorale solo un anno fa. Ma deve gestire, oltre ai problemi interni e alla opposizione durissima della destra sovranista al potere per tutto il decennio precedente, la difficile questione ucraina. Accoglie e gestisce al meglio un milione di rifugiati di un Paese amico che però potrebbe divenire un temibile competitor agricolo nel caso entrasse a far parte della UE, con il conseguente e inevitabile conflitto interno che ne deriverebbe con il potente mondo agricolo nazionale.
Lo spagnolo Sanchez (per tornare ai premier in difficoltà), rimasto alla Moncloa con grande abilità e altrettanta fatica dopo le votazioni del luglio 2023, è ora alle prese con l’epocale disastro provocato dall’alluvione di Valencia con tutte le polemiche e le contestazioni popolari connesse.
Il premier britannico Starmer (ai fini dei rapporti di Trump con l’Europa bisogna considerare, evidentemente, pure il Regno Unito) ha già perduto consensi e fiducia appena poche settimane dopo aver vinto le elezioni.
In questo quadro a Washington ritornerà il Presidente che non crede più di tanto nella NATO e che in ogni caso esige dagli europei un contributo per il suo mantenimento assai più corposo di quello versato sino ad oggi; che non pare affatto disposto a investire altri milioni di dollari per la difesa di Kiev, nascondendo questa sua volontà dietro un approccio pacifista che in realtà maschera la sua propensione a trovare un accordo di minima con Vladimir Putin; che non apprezza per nulla la UE e anzi intende contribuire a disgregarla, probabilmente facendo leva sui suoi nemici interni “patrioti” e nazionalisti vari, e comunque impostando i rapporti su base bilaterale, dunque con ogni singolo Stato piuttosto che con Bruxelles.
Non solo. Se non soddisfatto dalle trattative con i singoli paesi è altamente probabile (lui lo ha già assicurato, in verità) che imponga dazi anche considerevoli per le merci europee maggiormente acquistate dagli americani, colpendo così al basso ventre l’economia del Vecchio Continente.
Ma non è tutto.
Trump ha già annunciato il ritiro degli USA dagli Accordi di Parigi sul clima: negazionista assoluto del cambiamento climatico e laudatore delle virtù – specie in dollari – dell’energia fossile egli non concepisce, probabilmente nemmeno riesce a immaginare, le “fisime” europee in materia ambientale e quindi colpirà in pieno uno dei cardini – la “rivoluzione green” – sui quali l’Unione Europea pareva volersi muovere con determinazione mediante le direttive adottate negli ultimi anni. Contro le quali in verità da qualche tempo hanno cominciato a levarsi diverse voci critiche, quasi tutte a destra, e che ora si alzeranno certamente di tono sulla base di una banale equazione: ma se Stati Uniti, Cina, India (per citare solo le nazioni principali) non fanno nulla per contrastare il cambiamento climatico riducendo l’emissione di gas serra perché dovrebbe farlo l’Europa al costo di pesanti riflessi negativi sulla propria economia?
Come si vede, la nuova presidenza americana interverrà su aspetti decisivi delle politiche europee: la difesa, l’economia, l’ambiente. Occorrerebbe un fronte continentale unitario e coeso.
Ma le difficoltà interne a ogni singolo paese, l’avanzare delle pulsioni nazionaliste un po’ ovunque, la debolezza già evidente della futura Commissione (peraltro ancora guidata da una Presidente abile nell’azione tattica ma priva di una visione strategica e dello spessore politico e culturale che sarebbe necessario in una fase storica tanto complicata) rischiano di condurre ogni singolo governo nazionale a immaginare che la cosa migliore da farsi sia quella di trattare singolarmente con l’alleato d’oltreoceano. Esattamente quello che vuole Trump. Esattamente quello che non andrebbe fatto.
Occorrerebbe un colpo d’ala.
Pena la decadenza del progetto unionista.
Come ha scritto Draghi nel suo eccellente Rapporto. Che però, come scrivevamo qui qualche tempo fa, è già stato depositato nel cassetto più in basso della scrivania di Ursula Von der Leyen. Sarebbe bene, al contrario, che lo ritirasse fuori. Per rileggerlo. C’è qualche buona idea per rilanciare l’Unione e trasformare il problema – le politiche di Trump nei nostri confronti – in una opportunità, proprio come ha detto, auspicandolo, Mario Draghi.