Dunque, ci siamo. Fra un paio di settimane circa 350 milioni di europei saranno chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento di Strasburgo.
Nei 27 Stati membri la campagna elettorale è in pieno svolgimento: in qualche caso ponendo fra i temi del confronto anche quelli che hanno direttamente a che fare con le questioni che l’Unione deve affrontare in quanto tale, ma per lo più – e l’Italia da questo punto di vista è in prima fila – il confronto si svolge sulle scelte di politica interna.
Insomma, il solito mega-sondaggio a uso nazionale. Questo è un male, perché davvero la UE si trova a un punto di svolta.
Qualche anno fa scrissi un libro, Europa al bivio: ebbene vedo che quel titolo è anche oggi spesso utilizzato in articoli e saggi perché esprime bene il momento.
L’Unione deve cioè decidere se cercare di contare di più nella politica internazionale o se viceversa rinunciare a questa opportunità e rassegnarsi ad un ruolo minore, con i suoi piccoli stati intenti a trovare qualche sponda fra i grandi della Terra per fare con loro un po’ di business.
Europeismo contro sovranismo, questo è il tema del confronto elettorale. Mentre gli obiettivi del secondo, interpretato in ogni paese da qualche partito o movimento, in genere orbitante nella Destra ma in qualche caso anche no, sono abbastanza chiari in senso negativo (“meno Europa”), quelli del primo sono alle prese con le conseguenze dirette che esso comporta, per rendere davvero più efficace la politica continentale. E sul punto le idee non sono sempre convergenti, oppure lo sono in linea teorica per poi divergere in sede di eventuale loro concretizzazione.
Il primo punto, quello da cui discende tutto il resto, è la modifica, necessaria, dei Trattati, a oltre quindici anni da quelli di Lisbona (che, si ricorderà, furono la disperata risposta, tutto sommato efficace, al fallimento del progetto costituzionale europeo) in un mondo follemente tornato a parlare di guerra, addirittura anche nucleare.
L’obiettivo sarebbe quello di rendere più efficiente il processo decisionale dell’Unione, anche in virtù di una maggiore integrazione dei Paesi membri. Questo risultato si otterrebbe, innanzitutto, con il superamento della tanto criticata regola del voto all’unanimità su tutti i dossier più rilevanti.
Naturalmente è una scelta, questa, difficile da accettare soprattutto da parte dei paesi più piccoli, che perderebbero un potere di veto in grado di controbilanciare il loro minore peso, politico ed economico.
Un potere in realtà più spesso minacciato che esercitato, a conferma di quanto penalizzante esso sia per il buon funzionamento dell’Unione, così facilmente immobilizzabile ogni qualvolta uno dei suoi membri voglia mettersi di traverso su un qualsiasi argomento di un certo rilievo.
E allora un’alternativa potrebbe essere il “metodo Euro”: non tutti vollero adottarlo ai suoi albori (e tuttora sono sette i Paesi membri che non hanno abbandonato la propria moneta nazionale) e la scelta fu di procedere ugualmente, con chi ci stava.
Una decisione coraggiosa e corretta, che fu merito di Valery Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt proporre con la forza politica necessaria, derivante anche dal peso dei loro paesi. Un’Europa a due velocità, insomma: i tempi richiedono capacità di iniziativa politica e non al contrario immobilismo dovuto a veti di varia natura e provenienza.
Altro tema topico è il dualismo tra Commissione e Consiglio Europeo. Le due presidenze dovrebbero essere unificate, onde superare l’attuale cacofonia pur lasciando immutate le competenze dei due organismi.
La rappresentanza istituzionale verso l’esterno sarebbe più chiara per gli interlocutori extraeuropei, che nel complicato disegno istituzionale comunitario altro non vedono se non la conferma ai loro occhi di quanto divisa e dunque debole sia la UE.
Anche in questo caso sono prevedibili forti dissensi, in ispecie da parte dei governi che meno o per nulla credono nel progetto comunitario: non sfugge ad alcuno che il Consiglio è visto da molti (o per meglio dire da tutti) come il contraltare della Commissione.
E infatti i Capi di Governo lo considerano il vero organo decisore sulle questioni più importanti. Col risultato che né una politica estera comune né una politica di difesa comune sono obiettivi allo stato realmente raggiungibili, anche se l’evoluzione degli eventi geopolitici ne testimoniano l’urgente necessità.
Per anche solo discutere di questi indispensabili cambiamenti occorrerebbe un mandato popolare chiaro, in senso comunitario e non sovranista.
Ma campagne elettorali nazionali tutte imperniate su questioni nazionali non affrontano minimamente questi temi, che rimangono dunque sconosciuti al grosso dei cittadini europei. Che quindi voteranno sulle prime e non su questi ultimi. Un grave errore che invariabilmente si ripete ogni cinque anni. Peccato.