L’ultimo vertice europeo si è concluso con un successo in termini di risultati, davvero non sottovalutabili. Non poteva che finire così, perché l’alternativa era un clamoroso fallimento che avrebbe sanzionato la crisi dell’Unione, offrendo così a Putin una nuova occasione per ribadire il concetto che esplicita da tempo: l’Europa (con l’Occidente) è debole e in irreversibile declino.
Nonostante le differenze interne fra i paesi membri nessuno dei 27 può consentirsi un fallimento sul fronte comunitario alla vigilia di elezioni come sempre importanti ma questa volta di più, data la situazione internazionale con la quale l’UE deve confrontarsi. Nessuno, neppure l’Ungheria recalcitrante su troppi punti dell’agenda di Bruxelles e ora isolata, avendo la Polonia deciso democraticamente di cambiare strada rimettendosi su quella comune agli altri soci del progetto federalista.
Sono stati così decisi i 50 miliardi di aiuti per l’Ucraina, spalmati in quattro anni, indirizzati anche verso la sua auspicabile ricostruzione e il suo rilancio economico, e non solo per il suo riarmo militare. Superato questo ostacolo posto dal premier magiaro Viktor Orban il resto è venuto da sé: l’accordo per la revisione del bilancio comunitario, quello per l’attribuzione dei fondi destinati alla politica migratoria, quello per la copertura dei tassi di interesse cresciuti sul debito comune che finanzia i singoli Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza.
Non che Orban se ne sia andato a mani vuote, per inciso: formalmente ci sarà un riesame annuale dei fondi per l’Ucraina (ma non ci sarà diritto di veto); concretamente riceverà i soldi per la politica di coesione e quelli del PNRR, anche se gradualmente e in relazione al ripristino normativo di alcune regole sullo stato di diritto indispensabili per esser parte dell’UE.
Ma torniamo agli aiuti militari destinati a Kyiv. Tema importante non solo per le sorti della guerra ma anche per quanto esso influirà sulle scelte elettorali dei cittadini europei, il prossimo giugno. Quanto è reale la “stanchezza” europea dopo due anni di conflitto?
Quando Orban sostiene – contestato dagli altri primi ministri – che prolungare lo scontro con la Russia significa solo aumentare morti e distruzioni materiali senza aver la minima speranza di vittoria quanto queste sue affermazioni riflettono un sentire comune diffuso, carsico e pronto a rivelarsi appunto alle votazioni sospingendo elettoralmente i partiti ostili alle politiche unioniste e finanche all’Unione?
Un interrogativo che i leader preferiscono accantonare ma che esiste, è inutile nasconderselo. Certo, dal punto di vista ideale e pure da quello strettamente politico non v’è dubbio che aiutare l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa significa proteggere l’Europa tutta dalle minacce provenienti da Mosca. Una questione esistenziale, e dunque indifferibile. Ma le crisi, soprattutto quelle di natura economica, che pervadono il continente (ultima quella degli agricoltori, che occupavano con i loro trattori la capitale belga proprio durante il vertice) pongono invariabilmente i politici di fronte a scelte dettate anche, se non soprattutto, da calcoli elettorali, che del resto nelle democrazie – e solo in esse – devono pur essere fatti.
Denari spesi per l’Ucraina sono denari in meno per gli europei, non tutti – purtroppo – così consapevoli di quale sia l’entità, altissima, della posta in gioco. Ecco allora che, nella realtà, vi sono da un lato gli impegni e dall’altro le erogazioni effettive. Mentre la Corea del Nord riempie di munizioni e missili i depositi russi, Bruxelles del milione di munizioni garantiti a Kyiv un anno fa ne ha in realtà consegnate solo la metà. E’ però vero che in questi due anni l’Unione Europea ha erogato 28 miliardi di euro in sostegno militare all’Ucraina (come puntigliosamente ha rimarcato Josep Borrell, l’Alto Rappresentante per la politica estera), ma purtroppo non sono bastati. E il timore, inconfessato, è che neppure questi ora previsti per il futuro basteranno.
Perché il punto, oggi, a due anni dall’attacco russo, è esattamente questo: quanto durerà, ancora? Che – ed è la paura elettorale dei leader – il cittadino medio europeo potrebbe tradurre in una ulteriore domanda” “quanto costerà, ancora?”